Sull’articolo del Tgcom24 e su altre annose questioni da “fashion blogger”

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Ora, oggi ne hanno già parlato molto bene e dicendo cose giustissime tante colleghe, quindi non vorrei correre il rischio di essere ripetitiva. Però quando mi irrito ho il brutto vizio di non riuscire proprio a tenere a freno la lingua, in questo caso più che altro le dita sulla tastiera e sento dunque l’esigenza di esprimere anche il mio punto di vista.
Cosa è successo? È successo che un giornalista ignoto (troppa vergogna per firmarsi?) ha scritto un articolo di intelligenza sopraffina intitolato (e già il titolo dovrebbe dirla lunga sui neuroni spesi per questo illuminante pezzo di giornalismo italiano) “TI PIACE LA MODA? DIVENTA UNA FASHION BLOGGER”.
Della serie non so, “Ti piace cucinare? Apri un ristorante!” – “Ti piace cucire? Apri una sartoria” – “Ti piace scrivere? Diventa un romanziere”. La banalità.

Cito dal testo: “Una macchina fotografica, un sorriso e un computer. Basta questo per diventare una fashion blogger, un’esperta di tutto ciò che riguarda moda, vestiti e personal style”.Certo, tutte abbiamo iniziato così. Non sapete quanti sorrisi ho fatto davanti al computer aspettando che i post si scrivessero da soli e che la scienza mi si infondesse. Ho fatto anche una marea di sorrisi aspettando che le aziende mi dessero retta e apprezzassero il mio modo di scrivere tanto da ritenermi degna dell’invio di un comunicato stampa.

Cito dal testo: “È indispensabile un primo investimento per acquistare i primi abiti da pubblicizzare. Fashion blogger raccontano che la spesa iniziale si può aggirare attorno ai mille euro ma può anche essere più contenuta”.No ma dico stiamo scherzando? Chi sarebbero queste Fashion Blogger che hanno dichiarato una simile corbelleria? Voglio i nomi, i cognomi e gli indirizzi dei loro blog. Prescindendo dal fatto che un’inopportuna generalizzazione ritiene Fashion Blog solo quelli che presentano outfit e non anche quelli che, con un taglio più giornalistico, recensiscono collezioni, eventi, prodotti, presentano designer emergenti, fanno interviste (eccettera, eccettera, eccettera), dire che come punto di partenza bisogna fare un investimento in borse e scarpe e quanto di più svilente si possa dire in merito a questa attività.

Cito dal testo: “È necessario conoscere i trucchi dei motori di ricerca (SEO) per fare in modo che il proprio blog compaia nelle prime pagine di ricerca su Google quando si cerca un vestito o una borsa alla moda. È fondamentale usare le giuste parole chiave e pubblicizzarsi sui social network attraverso una pagina Facebook e un’utenza Twitter create ad hoc. L’uso dell’inglese aumenta la possibilità di portare più click al proprio portale. Ma se non lo si parla nessun problema, basterà usare il traduttore di Google per rendere disponibile il vostro fashion blog in 50 lingue“.Sempre per la serie favoriamo la banalità e proponiamo un’immagine superficiale di chi si dedica seriamente al blogging. A dire il vero una cosa giusta in questa frase c’è, ovvero le conoscenze SEO, sono effettivamente necessarie, sono quantomeno un plusvalore che può sicuramente aiutarti nel far emergere il tuo sito dall’anonimato in cui spesso lo stesso Google ti conduce inesorabilmente. Certo che poi, quando ti trovi ad avere a che fare con aziende che SI STUPISCONO che tu sappia cosa sia il SEO e che addirittura provi ad esprimere un’opinione su come sarebbe meglio strutturare una campagna di pay per post, inizi a domandarti in quanti siano al mondo (o quantomeno in Italia) che capiscono davvero cosa significa stabilire dei rapporti lavorativi con i blogger. Ma veniamo al punto focale: il traduttore automatico di Google, che a detta dell’esimio scrittore di questo testo illuminato, risolverà tutti i problemi di chi non conosce bene l’inglese o altre lingue europee. Il traduttore automatico di Google, per quanto possa essere uno strumento utile (magari quando hai bisogno al volo del significato di una parola in una lingua che non mastichi) è un traduttore “A SENSO”, questo significa che non rispetta l’ordine sintattico della frase, non ne coglie ovviamente le sfumature intrinseche. Non si può, ad esempio, tradurre un modo di dire con un corrispondente fraseggio in un’altra lingua. Altrimenti domani potrei svegliarmi e scrivere, chessò, “over the bench the goat sings” (sopra la panca la capra canta) e aspettarmi che un mio lettore americano o inglese (o di qualsiasi altra nazione visto che l’inglese è internazionale) non chiami la neuro-deliri.Tradurre un post in un’altra lingua richiede di saperla decentemente, o quantomeno di impegnarsi in una traduzione sensata, altrimenti è meglio lasciar perdere. Io ho adottato la tecnica, siccome fare delle buone traduzioni porta via parecchio tempo, di tradurre in inglese solo specifici post in cui mi trovo a collaborare o citare aziende con cui comunico lavorativamente in inglese. Piuttosto che scrivere cazzate non è meglio non scriverle?

Cito dal testo: (e poi la pianto perché questo post è già diventato troppo lungo e forse non lo leggerà nessuno ma rimarrà solamente un mio umile sfogo): “Le migliori fashion blogger italiane ricevono inviti alle sfilate più prestigiose, vestiti in regalo e banner (messaggi pubblicitari a pagamento sul proprio sito) del valore di 3mila euro al mese”.Qui si insinua in modo piuttosto sgradevole che chi fa questa attività lo faccia per avere in regalo dei vestiti o dei buoni e questo è meschino. È necessario ammettere che arrivano regali, che sono graditissimi (come potrebbe non esserlo un regalo?) ma non si può generalizzare e non ricordare che la pratica dell’omaggistica alla stampa (perché, ad oggi, per gli uffici stampa i blog sono equiparati alla stampa online), esiste dai tempi di Pietro in Francia. Quel che forse vale la pena ricordare, o anzi, che voglio ricordare io anche se so che molte colleghe la pensano come me è: ricevere un omaggio o un regalo, o un prodotto in prova non equivale automaticamente per l’azienda ad avere un post positivo pubblicato. Sarebbe un grave insulto nei confronti di chi spende del proprio tempo a leggere i nostri blog, commentare, lasciarci un messaggio su Facebook o risponderci su Twitter.Per quanto all’esimio giornalista possa apparire strano esiste una deontologia anche tra molte Blogger (e non a caso ho lasciato perdere il termine Fashion davanti alla definizione): io non parlo di un prodotto che non mi è piaciuto o che ho trovato non soddisfacesse le aspettative promesse (e magari anche promosse da una campagna pubblicitaria); io non parlo del qualunque argomento mi venga proposto; io non pubblico TUTTI i comunicati stampa che mi arrivano ogni giorno (romperei le balle a ritmo di 100 post al giorno, suvvia), ma cerco quelli di mio interesse, li studio, mi informo, li rielaboro secondo il mio stile scrittorio.Io non guadagno 3.000€ con la pubblicità sul sito, né firmo contratti milionari con case di moda.Se c’è qualcuna che lo fa, beh, buon per lei, ma sono casi isolati e la situazione reale del fashion blogging italiano è ben diversa. Far apparire tutto così semplice è offensivo e denigratorio, è svilente, è banale (l’ho già detto?), è superficiale, insomma, è fare falsa informazione.Io lavoro a partita IVA e sono una blogger a tutti gli effetti, ma non pensate che i miei guadagni a fine mese derivino da questa pur meravigliosa avventura di M.O.M.A. Questo blog è stato un biglietto da visita, che, insieme alle esperienze lavorative da impiegata fatte nel settore web mi hanno permesso ad oggi di emanciparmi e iniziare a fare questo lavoro in modo indipendente e per dei clienti che spesso con il mondo della moda non c’entrano nulla.Volete sapere cosa ho fatto oggi per buona parte della giornata? Scritto didascalie di fotografie di viaggio. Molto poco fashion, non trovate?

Con questo non posso dire che M.O.M.A. non abbia dei guadagni perché mentirei, i banner se li inserisco li inserisco per un motivo, quando sotto un mio post trovate la dicitura “articolo sponsorizzato” è perché probabilmente ho ricevuto un compenso per scriverlo o avevo degli accordi specifici con un’azienda. Ma tutto questo sempre e solo seguendo il mio cervello, il mio buon senso e, spero anche, la mia professionalità, motivi che, sempre spero, siano gli stessi per cui in tanti o pochi passiate di qui a leggermi ogni giorno.
M.O.M.A. raccoglie la mia passione per la moda, il design, gli stilisti emergenti, i libri, il beauty e tanto altro, anche se non avesse avuto successo avrei continuato a scrivere come ho fatto per quasi 7 anni nel mio precedente blog, un diario personale, letto da pochi amici e qualche avventore paziente della rete. Quando lascio un commento sui blog delle mie colleghe non lo faccio sperando che vengano a lasciarne uno in cambio, ma lo faccio per il piacere sincero di aver letto un loro post. Altrimenti faccio a meno di leggerlo. E, già che siamo in tema, non chiedetevi perché non vengo a ricambiare una visita quando mi scrivete “ti seguo, passa a trovarmi” “che bel post, leggi anche da me”, perché sono commenti che danno l’impressione che la persona in questione non abbia nemmeno letto ciò che hai scritto ma che sia solo a caccia di pubblicità a zero costo.C’è chi dice che il blogging dovrebbe tornare lo strumento libero che era un tempo e tutti quelli che lo fanno ormai di “mestiere” dovrebbero trovarsi altro da fare, io sono dell’idea che, come qualunque attività, se fatta con intelligenza, passione, dedizione, amore e sacrifici meriti una propria dignità e non un banale articolo di 1.000 battute sul TGcom24. Settore Economia per di più.
Terminato lo sfogo, pat pat a chi è arrivato fino a qui.

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