L’insostenibile leggerezza dell’essere…single

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Avevo solo 14 anni quando lessi per la prima volta L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera. Decisamente prematuro, me ne resi conto dopo, ma cosa vogliamo farci, i libri per bambini mi avevano stufata, quelli per adolescenti tanto più. Non ho mai amato la fantascienza, le fanfiction, all’epoca mi facevano ribrezzo persino le storie d’amore, e quindi, mi ero buttata sulla filosofia.

L’insostenibile leggerezza dell’essere non è un libro semplice da affrontare, ma offre una prospettiva sulla vita che può ritenersi adatta a molti, è stato un libro culto negli anni ’80, rimane super venduto ancora oggi, e credo un motivo ci sia, non tanto perché molti uomini d’oggi si rivedono in Tomáš, il protagonista, ad esempio, o forse sì?

Mi rendo conto che potrei basare questo post sul nulla, quindi, chi non conoscesse Kundera e non avesse mai letto questo romanzo, può approfondire qui. Nel frattempo fingerò che la scelta del titolo sia stata puramente casuale, solo perché “si prestava”, d’altra parte l’ha fatto anche Venditti con un suo album, perché non dovrei farlo io?

Oppure facciamo finta che non ci siano sottintesi filosofici e prendiamo questo titolo, con la mia aggiunta, in modo molto letterale. L’insostenibile leggerezza dell’essere single. Nel senso che dopo un po’ la leggerezza della vita da single inizia a parerti insostenibile. Mettiamola così.

L’uomo (e anche la donna), sono animali sociali. Da soli possono stare bene per un po’, poi, inevitabilmente, cercheranno il contatto. Stare da soli non è semplice, essere soli non è semplice, sentirsi soli è la sensazione peggiore, specie quando ti capita di iniziare a provarla anche in mezzo alla gente, tra amici, colleghi, anche nella folla più densa di sempre. La solitudine, a differenza di molti altri status, può essere non necessariamente oggettiva, ma solo e semplicemente una sensazione, non per questo meno terribile.

Conosco bene le fasi dell’essere single, anzi, del tornare single. Si passa dal dolore, al rifiuto, alla rinascita, un po’ come il vissuto di qualsiasi lutto. Quando si inizia a stare meglio si cerca la compagnia di tante persone e si riscopre l’altro sesso, e qui, quasi sempre, nascono i problemi. Una delusione sentimentale, specie superati o quasi raggiunti gli -enta, lascia dei segni indelebili, e no, non è una canzone della Pausini.

Se questo blog per anni è rimasto un contenitore di lifestyle ed esperienze in ogni settore, sempre con un tocco personale, nel 2015, quando la mia vita privata è improvvisamente andata a rotoli, l’amore è diventato un nuovo argomento di conversazione con tutti voi. Ho ripreso il senso di bloggare come “tenere un diario”, delle mie sensazioni, dell’evoluzione dei miei pensieri sull’amore e sulle relazioni, adesso è da tanto che non lo faccio, e sono ormai quasi 3 anni che sono single.

Come sono andati questi 3 anni? Posto che le esperienze vere, quelle che fanno ridere e piangere allo stesso tempo vorrei tenerle nascoste fino a quando non ci scriverò sopra un bestseller, potrei provare a tirare delle somme generiche. Aspettate un attimo che penso ad un aggettivo perfetto…

“Allora Ale, come sono andati questi 3 anni da single?”

“Di merda”.

“Ah”.

Quando si dice “avere il dono della sintesi”.

Invecchiando, forse, lo si acquisisce. Almeno su alcuni argomenti.

La verità, ragazzi, come dicevo ormai un bel po’ di righe più sopra, è che non siamo fatti per stare da soli, che possiamo raccontarci tutte le storielle che vogliamo, possiamo bullarci della nostra capacità di reagire, di vivere situazioni tipicamente “a due” anche da soli. Possiamo farci delle vacanze splendide in solitudine (e le ho fatte eccome!), possiamo andare a ristorante e reggere lo sguardo di chi ci scruta chiendosi “chissà cosa fa quella poveretta da sola”, possiamo andare al cinema, riparare un rubinetto, leggere libri e guardare film su Netflix fino alle 3 del mattino, possiamo farci la tisana alla malva in piena notte e prendere la Tachipirina ogni 8 ore quando abbiamo la febbre.

Possiamo uscire, andare in un locale, sederci al bancone e chiacchierare con chi capita. Possiamo fare sesso occasionale, senza sensi di colpa. Possiamo non avere nessuno che ci consigli spassionatamente e comprare dunque tutti i vestiti che ci stiano peggio in assoluto, sempre senza sensi di colpa. Possiamo metterci il rossetto senza lasciare chiazze sulle camicie, possiamo mangiare spaparanzate sul divano direttamente dalla pentola Homer Simpson style, possiamo girare per casa con la crocchia sui capelli e la vestaglia di Minnie, possiamo usare i calzettoni di lana con le renne in inverno e gli shorts con gli unicorni in estate. Possiamo fare un sacco di cose, insomma. Ma volete mettere, tutte queste cose, trovare il modo di farle con accanto una persona che non ti giudica e con cui la confidenza è tale da trovarti a tuo agio tanto quanto in solitudine?

Il dualismo dell’essere soli, forse, sta proprio qui.

Da soli alcune cose sono più semplici, perché l’unico giudizio da temere è quello di te stessa, che prima o poi, un toc toc in testa te lo fai da sola e ti dici “ok, dai, basta briciole sul divano”. In due, almeno in una prima fase, è molto difficile sentire di poter essere se stessi al 100% e, credo, anzi posso dirlo con un certo margine di certezza dopo aver visto fallire non so quante frequentazioni in questi 3 anni, che nessuno, arrivato alla nostra età e consolidate delle abitudini nello “stare solo/a”, abbia tutta questa voglia di rimettersi in gioco.

Il problema spinoso è: senza gioco, nessuna relazione. Dunque il problema della singletudine persiste ineluttabile. Una generazione di zombie alla ricerca di un perché sentimentale. Quando si è single dopo i 30, un motivo c’è, mettiamocelo in testa.

È tutto un vorrei ma non posso, un vorrei ma non voglio, vorrei e “ma se poi”. Vorrei ma ho paura, insomma. Paura che questa leggerezza dell’essere single, da insostenibile diventi invece sostenibile, paura di non trovare la persona giusta, paura di essersi accontentati mentre il tuo grande e precedente amore ti fa una pernacchia da dietro la porta immaginaria dei ricordi. Paura di discutere per un tubetto di dentifricio strizzato malamente, per una mutanda dimenticata per terra, per un oggetto spostato di qualche millimetro sulla scrivania. Paura di conoscere nuove famiglie, nuovi amici storici, paura di non piacere, paura che possa finire da un momento all’altro per aver scelto un film di merda da vedere al cinema.

E come si supera questa dannata paura? La risposta ce l’ho pronta, amici di MOMA che in questi mesi mi avete persistentemente chiesto che fine avessi fatto ed è: non lo so.

Sento i “buuuuu” forte e chiaro mentre scrivo le ultime righe di questo post, l’attesissimo ritorno alla tastiera di una che per mesi ha provato a scrivere ritrovandosi davanti al panico da foglio bianco di Word. Di una che, in ogni caso, a 31 anni suonati ha fatto su 4 borsoni e si è trasferita in un’altra città, dando una sferzata alla propria vita, cambiando strada un’altra volta, trovandosi a piangere disperata per la mancanza di casa i primi tempi e improvvisamente rendersi conto 8 mesi dopo di non provare in realtà altro che una tenerezza per il passato e una grande curiosità per il futuro. Sono sempre io, quella che scrive compulsivamente di notte, o almeno adesso lo sto facendo, chissà mai cosa mi si è sbloccato in testa, quella che fa cadere cose e che passa dall’essere impacciata all’essere sicura di sé con la stessa velocità con cui un gigolò cambia boxer. Sono quella che dorme con le t-shirt da uomo al contrario autoconvincendosi di essere maledettamente sexy e maledettamente divertente, sono quella che manda pochi messaggi su Whatsapp perché ha paura di rompere le scatole, sono quella che nasconde una grande insicurezza per il proprio aspetto fisico dietro una cura maniacale dei dettagli e dietro un’apparente grande sicurezza nelle proprie capacità mentali e intellettive. Sono quella che a volte sparisce quando non ha voglia di sentirti, sono quella che canta sotto la doccia e la domenica mattina facendo le pulizie, sono quella che si butta a letto contando le pecore e sperando di dormire più di 5 ore per notte. Sono un gran casino insomma. Ma il più grande traguardo è aver accettato di esserlo e intravedere all’orizzonte persone che questo casino hanno voglia di esplorarlo un po’ e magari trovarci un senso, più di quanto io stessa non riesca a trovarne uno.

La mia insostenibile leggerezza dell’essere single si traduce in una ricerca continua di emozioni, più o meno forti, più o meno vere, più o meno durevoli, più o meno sincere. Emozioni. Positive e negative. Non cerco più l’amore, perché amore è un termine ampiamente sopravvalutato, cerco serenità che invece no, non la si sopravvaluta mai abbastanza. Cerco sorrisi che non spariscano dopo un weekend di vino bianco e lenzuola, cerco una mostra da vedere, una passeggiata da fare, un aperitivo da bere, una cena da gustare, cerco passione, quella che ti inchioda e non ti fa respira e ti sorprende, giorno dopo giorno.

Arriverà qualcuno a dirmi che forse l’amore è proprio un insieme di tutto quello che ho appena elencato e forse quel giorno l’insostenibile leggerezza dell’essere single si trasformerà nella sostenibilissima fatica di non essere più soli.

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