Legati ad un granello di sabbia

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«Non è di moda, non lo fa più quasi nessuno, dalle scarpe ai rapporti.
Funziona o non funziona e buttare è un gesto distratto, una piccola parabola in discesa che attraversa clandestina la coda dell’occhio intanto che facciamo il caffè. E che non si vede dove finisce.
È fastidio intollerabile la Geenna cittadina dei rifiuti fumanti.»

Sì, buttare è un gesto distratto. Ma neanche poi tanto, a pensarci bene.

Buttiamo quello che non ci serve più, l’inutile ciarpame che ruba spazio nei nostri armadi e tra i nostri ricordi; buttiamo quello che ci fa male, dal pacchetto di sigarette quando decidiamo di abbracciare il salutismo, alla bustina di zucchero del primo caffè bevuto con quello che avremmo voluto tanto fosse il nostro ultimo amore; buttiamo quello che ci riporta alla mente i nostri buoni propositi sfumati e le aspettative deluse, dalla tuta fiduciosamente acquistata a maggio per andare a fare jogging – ma ormai siamo a dicembre, e ormai chi ha voglia di andare a correre con ‘sto freddo? -, al biglietto mai convalidato di un treno che avrebbe dovuto portarci lontano.
Sì, distrattamente ci liberiamo ogni giorno di quei rifiuti fumanti che pensiamo non valga pena riciclare, salvare. Ogni giorno priviamo oggetti, persone ed emozioni di quell’ultima chance che potrebbe riconsegnarli a nuova vita. E che potrebbe ridarci un po’ di vita, forse.

Buttare è un gesto distratto, ma lo è di più a vent’anni forse, quando nelle vene ti scorrono sangue e inguaribile ottimismo. Quando la tua personalissima discarica di rifiuti fumanti è ancora semivuota, e se la guardi ti viene da pensare che “ce n’è tanto di spazio, e ne ho tanto di tempo per rimpiazzare quel che butto”.
Sì, a vent’anni prendi-usi-butti persone e oggetti con una facilità e una disinvoltura che ha qualcosa di compulsivo e bulimico. Ti concedi il lusso di liberarti di quello che non ti piace perché credi – e ti convinci – che il destino abbia in serbo per te qualcosa di più grande, di più luminoso.

«Persone appaiono e dispaiono. Amici, nemici, lontani, nessuno.
Come se il mondo fosse solo deserto o giardino, ineluttabile abitare quel che capita, perché così va la vita, non c’è niente da fare, bisogna prender quel che viene, ma dove-vive-lei, la gente è così, a esser sognatori ci si perde sempre, come se non si potesse coltivare il deserto, e certo anche il giardino.»

A esser sognatori ci si perde sempre, ma lo scopri a trent’anni, se sei fortunato.
A trent’anni la frenesia di bilanci esistenziali non ti riguarda, ma uno sguardo al passato, ai tuoi trascorsi, talvolta lo getti. E non puoi fingere di non vedere la tua personalissima discarica di rifiuti fumanti. No.
La sbirci, e quella stessa coda dell’occhio che prima ignorava la
parabola discendente di quello che veniva buttato, adesso ti sbatte in faccia la concretissima decadenza di tutto ciò che hai perso.
Che hai voluto perdere.
E non puoi non sentire l’olezzo dell’abbandonato che hai voluto lasciar marcire.
Per pigrizia, per indolenza, per paura di non essere abbastanza.
Guardi la tua personalissima discarica e ti sorprendi di quanti attimi e persone tu sia riuscito ad accumulare. Amori, amici e nemici. Quanto stupore. Quante cose. Cosa resta ormai? Niente, nessuno.
“E se avessi magari anche solo provato a salvare tutto quello che ho gettato via? Che ne sarebbe stato? E se mi fossi impegnato a preservare un po’ di quello spazio che adesso è discarica, come sarebbe cambiata la mia vita? Se avessi anche solo tentato di tramutare quel deserto in giardino, sarei stato più felice di così?”.

Forse sì, o forse no.
A trent’anni si insinua la paura di perdere e di non ritrovare più; la paura di lasciarsi sfuggire occasioni, presenze, ricordi.
A trent’anni ti chiedi se rimpiangerai quel che butti, se una notte d’insonnia riporterà a galla il rimorso di aver gettato nell’indifferenziata di una vita divorata troppo in fretta qualcosa che hai avuto e vissuto.
A trent’anni ti riesce più facile chiedere scusa se tratti male un amico, se non rispondi a un messaggio, se vieni frainteso e temi non ti venga concesso un chiarimento.
A trent’anni quella chance che non avevi concesso, la pretendi.
A trent’anni le sensazioni e le persone sono come una manciata di sabbia: serri il pugno, vorresti non ti sfuggisse nemmeno un granello. Ma il vento, la pigrizia, l’indolenza, l’orgoglio portano via tanto, troppo.
No, se non ti sforzi, a trent’anni quel che perdi non lo recuperi più.
Per non parlare di quello che butti.

«È un’arte il riparare, se ben coltivata può far nuove tutte le cose, e non perderne neanche una, nè una persona mai, perché bisogna aver vicino quel che si ripara è così, semplicemente, non si dimentica il suo valore.»

Riparare-recuperare-salvare. Riciclare.
Le alternative alla discarica ci sono, e sono tante. Il deserto può diventare giardino, forse basta volerlo. Il consumismo ha affinato la tecnica ed è riuscito a divorare persone, non solo oggetti; non dovremmo cedere al consumismo affettivo, a trent’anni proprio no.
Non leghiamo quel che ci circonda a un granello di sabbia, perchè serrare il pugno spesso non basta: il vento – distratto – porta via. Ormai lo sappiamo.
Impariamo l’arte del riparare, ma no, non mettiamola da parte.

Le citazioni sono tratte da “Ma come tu resisti, vita” di Mariapia Veladiano: un libriccino di circa 130 pagine scovato per caso, mesi fa, in una bancarella di libri usati rivenduti a 1€.
Me ne sono innamorata subito.
Ironia della sorte, l’ho trovato perché qualcuno aveva deciso di buttarlo.

Scopri T(r)entennamenti, la nuova rubrica dei trentenni e per i trentenni, scritta da tre trentenni per MOMA Style

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